sabato 30 maggio 2009

"Il medico e lo stregone"





Ieri ho assistito alla proiezione del film "Il medico e lo stregone": una commedia italiana degli anni '50 molto piacevole e divertente, ma allo stesso tempo ricca di un messaggio educativo profondo ed ancora attuale.

Prima di parlare della discussione/riflessione derivata dalla visione del film cerco di spiegare brevemente la natura del progetto che ieri è stato presentato.
Si tratta della proiezione di una serie di otto films, a partire da gennaio prossimo, che devono ancora essere scelti, ma che avranno come tematica "Le medicine".
Le medicine possono essere intese come le medicine alternative alla tradizionale, oppure come la medicina ospedaliera e territoriale: questo è ancora da vedere.
Gli incontri saranno seguiti da forum di discussione guidata da esperti.
Il progetto terminerà con una sorta di laboratorio, ma sinceramente non ho ben capito di cosa si tratterà.
Le informazioni che sto scrivendo sono state date dalla Prof.ssa Valanzanoe da altri collaboratori impegnati nel progetto durante l'incontro di ieri; in futuro ci saranno certamente dei cambiamenti.
Il progetto, che sta nascendo anche in altre facoltà di medicina, ha come obiettivo quello di portare gli studenti, che stanno percorrendo la lunga strada della formazione, a riflettere sul lato umano del ruolo che ricopriranno in futuro attraverso la visione di un film, che è in grado di provocare reazioni emotive istantanee e pertanto può essere utile.
Si inserisce nel panorama, nella linea guida che la Prof.ssa Valanzano sta plasmando nella nostra facoltà: potenziare il carattere umano della comunicazione durante la formazione, attraverso progetti come il nostro tirocinio al primo anno, che anche se troppo lungo, aveva come finalità un aspetto degno di molto rilievo: il percepire, senza schemi di pensiero predefiniti, la vita e la comunicazione nel reparto, guardando al lato umano della cosa, ovvero guardando gli uomini, non sono i malati (neanche le malattie, che ancora non conosciamo), ma anche anche il resto del personale che si aggira in ospedale.

Il film dovrebbe indurre a questo tipo di riflessione, almeno così ho capito io, allontanandosi un po'dai soliti libri.
E' un po' come far vedere al popolo lo spettacolo teatrale per denunciare la politica: i mezzi visivi sono molto diretti.

Comunque, tornando al film, in due parole racconta la storia di un giovane medico condotto (Mastroianni) che viene mandato ad esercitare la sua professione in un paesino di montagna in cui non era arrivata la medicina, e con lei il progresso. Nel paesino le persone si facevano "curare" da don Antonio (De Sica), uno stregone che sfruttando l'ignoranza e la fiducia che il popolo aveva verso di lui, "risolveva" problemi di salute e non solo.
Il medico non riceve subito dalla gente l'apertura e il rispetto che sperava.
Il popolo rifiuta le sue cure semplicemente perchè il medico non aveva stabilito contatti, come invece aveva fatto lo stregone.
Ci vorrà del tempo perché il medico acquisti la fiducia della gente e in questo consisterà la sua formazione umana, che lo costringerà anche a giungere a dei compromessi.
Tra ciarlataneria e scienza medica, certamente vince la seconda, ma, anche se è difficile da ammettere, ha anche lei qualcosa da imparare dalla prima: il suo lato comprensivo e l' empatia (così almeno viene rappresentata la ciarlataneria nel film).

Il medico può curare e quindi aiutare solo se il paziente ha fiducia in lui e ha creato con lui una relazione umana.
Come è venuto fuori dalla discussione, il discorso può sembrare circoscritto al solo medico di medicina generale, che è il primo punto di riferimento sanitario del cittadino, ma non è vero, infatti può essere esteso anche all'equipe medica e non, in reparto: la comunicazione fra il personale tra di sé e con il paziente è la base per creare un ambiente più favorevole alla cura.

In questa riflessione sembra che sia stato lasciato da parte il lato della conoscenza in senso stretto. Non l'ho rimarcato perché è considerata fondamentale all'unanimità.
La conoscenza è conditio sine qua non, ma nella medicina è fondamentale non perdere di vista la persona con il suo vissuto e i suoi valori che vanno non solo rispettati, ma anche compresi ed accettati.

C'entra sempre la psicologia positiva e l'effetto placebo: la fiducia fa già tanto da sè.

domenica 24 maggio 2009

Anche se ancora oggi ho difficoltà a capire


La visita ormai giornaliera della blogoclasse, l'annaffiatura dei miei fiori, qualche volta mi pone dei dubbi e delle tematiche su cui riflettere che possono dare inizio ai miei usuali stream of cosciousness.
Questa sera è così.
Sensazioni avute in momenti e in luoghi diversi mi hanno portato, con più forza del solito, a chiedermi il perché sia così difficile concretizzare il desiderato.
Caso, risponderei, ma non solo.
Per fortuna, altrimenti dovrei spararmi.

"Non sono sempre i desideri a determinare il destino e la missione di un uomo: ci può essere qualcos'altro, di predestinato". Hermann Hesse

Prendendo spunto dal post di Irene (Irros'blog) sul quindicesimo anniversario dalla fondazione di Emergency trascrivo un brano tratto da "Pappagalli verdi"di Gino strada, che spero abbiate letto: non posso che ripensarci con una forte ammirazione unita a un senso di infinita piccolezza.
E'un medico anche lui, come, forse, lo saremo in tanti, ma certamente un po'diverso da molti di quelli che girano nei nostri ospedali con il camice bianco immacolato.
Avremo noi almeno un pizzico della sua forza per CREARE e per CREDERCI?

La lettura del suddetto libro/insieme di ricordi mette di fronte a una realtà inumana.
Nel mio piccolo penso: mi alzo e vado.
Ma quanta forza ci vuole a estendere quella coscia.


"Un vecchio afgano con i sandali rotti e infangati, e il turbante con la coda che scendeva fino alla cintura, stava accanto al figlio di sei anni nel pronto soccorso dell’ospedale di Quetta.

Il bambino si chiamava Khalil e aveva il volto e le mani, o quel che ne restava, coperti da abbondanti fasciature.
Stava sdraiato, immobile, la camicia annerita dall’esplosione.
Qualcuno aveva strappato una manica e ne aveva fatto un laccio, legato stretto sul braccio destro per fermare l’emorragia.

“È stato ferito da una mina giocattolo, quelle che i russi tirano sui nostri villaggi” disse Mubarak, l’infermiere che faceva anche da interprete, avvicinandosi con un catino di acqua e una spugna.

Non ci credo, è solo propaganda, ho pensato, osservando Mubarak che tagliava i vestiti e iniziava a lavare il torace del bambino, sfregando energicamente come se stesse strigliando un cavallo.
Non si è neanche mosso, il bambino, non un lamento.

In sala operatoria ho tolto le bende: la mano destra non c’era più, sostituita da un’orrenda poltiglia simile a un cavolfiore bruciacchiato, tre dita della sinistra completamente spappolate.
Avrà preso in mano una granata, mi sono detto.

Sarebbero passati solo tre giorni, prima di ricevere in ospedale un caso analogo, ancora un bambino. All’uscita dalla sala operatoria Mubarak mi mostra un frammento di plastica verde scuro, bruciacchiato dall’esplosione.
“Guarda, questo è un pezzo di mina giocattolo, l’ hanno raccolta sul luogo dell’esplosione. I nostri vecchi le chiamano pappagalli verdi…” e si mette a disegnare la forma della mina: dieci centimetri in tutto, due ali con al centro un piccolo cilindro. Sembra una farfalla più che un pappagallo, adesso posso collocare come in un puzzle il pezzo di plastica che ho in mano, è l’estremità dell’ala.
“…Vengono giù a migliaia, lanciate dagli elicotteri a bassa quota.
Chiedi ad Abdullah, l’autista dell’ospedale, uno dei bambini di suo fratello ne ha raccolta una l’anno scorso, ha perso due dita ed è rimasto cieco.”

Mine giocattolo, studiate per mutilare i bambini.
Ho dovuto crederci, anche se ancora oggi ho difficoltà a capire…

Tre anni dopo ero in Perù.
Quando me ne andai da Ayacucho, dopo mesi passati a organizzare il reparto di chirurgia, un amico peruviano, artista e poeta, mi ha regalato un retablo, una specie di presepe in gesso.
Una scena di violenza e di lotta per il diritto alla terra.

Intorno alle figurine di contadini incatenati, trascinati via da militari con il passamontagna, tante spighe di grano, molto alte, dorate.

Sopra le spighe stormi di loros, pappagalli verdi col becco adunco e gli occhi rapaci.
“Per i contadini di qui – mi disse Nestor spiegandomi il retablo – i pappagalli simboleggiano la violenza dei militari, hanno lo stesso colore delle loro uniformi.
Arrivano, si prendono il raccolto, spesso uccidono, e se ne vanno via.”

Nestor mi raccontava la misera vita della gente di quella regione andina, le sofferenze e la rassegnazione, e la violenza sistematica.
Allora gli ho detto di altri pappagalli verdi, che avevo conosciuto in Afghanistan.

Mine antiuomo di fabbricazione russa (reverse engineering di un oggetto statunitense disperso largamente in Vietnam nei primi anni '70), modello PFM-1.
Gli ho spiegato che le gettano sui villaggi, come fossero volantini pubblicitari che invitano a non perdere lo spettacolo domenicale del circo equestre.

E ho visto i suoi occhi increduli, come erano stati i miei, e le labbra aprirsi un poco in segno di sorpresa.

La forma della mina, con le due ali laterali, serve a farla volteggiare meglio. In altre parole, non cadono a picco quando vengono rilasciate dagli elicotteri, si comportano proprio come i volantini, si sparpagliano qua e là su un territorio molto più vasto.
Sono fatte così per una ragione puramente tecnica – affermano i militari – non è corretto chiamarle mine giocattolo.

Ma a me non è mai successo, tra gli sventurati feriti da queste mine che mi è capitato di operare, di trovarne uno adulto.
Neanche uno, in più di dieci anni, tutti rigorosamente bambini.

La mina non scoppia subito, spesso non si attiva se la si calpesta. Ci vuole un po’ di tempo – funziona, come dicono i manuali, per accumulo successivo di pressione.
Bisogna prenderla, maneggiarla ripetutamente, schiacciarne le ali. Chi la raccoglie insomma, può portarsela a casa, mostrarla nel cortile agli amici incuriositi, che se la passano di mano in mano, ci giocano.

Poi esploderà.

E qualcun altro farà la fine di Khalil.


Amputazione traumatica di una o di entrambe le mani, una vampata ustionante su tutto il torace e, molto spesso, la cecità.

Insopportabile.


Ho visto troppo spesso bambini che si risvegliano dall’intervento chirurgico e si ritrovano senza una gamba, o senza un braccio.
Hanno momenti di disperazione, poi, incredibilmente, si riprendono.

Ma niente è insopportabile, per loro, come svegliarsi nel buio.
I pappagalli verdi li trascinano nel buio per sempre.

Dicevo queste cose a Nestor, seduti nel suo laboratorio pieno di quadri e sculture, e di figurine in gesso da colorare.
Discorrevamo di guerra e di violenza, di repressione e di libertà, di diritti umani.
Che cosa spinge la mente umana a immaginare, a programmare la violenza?

Mentre mi parlava delle tragedie della sua terra, del massacro dei contadini di Huanta che chiedevano solo che i loro figli potessero andare a scuola, avvertivo nelle sue parole, mescolate a un atavico pessimismo, la rabbia soffocata, il desiderio di ribellione.

Ma poi, inevitabilmente, il suo pensiero tornava ai pappagalli verdi, a quelli che scendevano dal cielo nel lontano Afghanistan.
E allora Nestor scuoteva la testa, e la rabbia lasciava il posto alla tristezza, quella che riempie la mente quando non c’è più la possibilità di capire, quando è svanita la ragione ed è solo follia.

Così abbiamo immaginato – sapendo che era tutto maledettamente vero – un ingegnere efficiente e creativo, seduto alla scrivania a fare bozzetti, a disegnare la forma della PFM-1.
E poi un chimico, a decidere i dettagli tecnici del meccanismo esplosivo, e infine un generale compiaciuto del progetto, e un politico che lo approva, e operai in un’officina che ne producono a migliaia, ogni giorno.

Non sono fantasmi, purtroppo, sono esseri umani: hanno una faccia come la nostra, una famiglia come l’abbiamo noi, dei figli.
E probabilmente li accompagnano a scuola la mattina, li prendono per mano mentre attraversano la strada, ché non vadano nei pericoli, li ammoniscono a non farsi avvicinare da estranei, a non accettare caramelle o giocattoli da sconosciuti….

Poi se ne vanno in ufficio, a riprendere diligentemente il proprio lavoro, per essere sicuri che le mine funzionino a dovere, che altri bambini non si accorgano del trucco, che le raccolgano in tanti.
Più bambini mutilati, meglio se anche ciechi, e più il nemico soffre, è terrorizzato, condannato a sfamare quegli infelici per il resto degli anni.
Più bambini mutilati e ciechi, più il nemico è sconfitto, punito, umiliato.

E tutto ciò avviene dalle nostre parti, nel mondo civile, tra banche e grattacieli. Al confronto anche i loros, verdi pappagalli che infestano le Ande, sembrano meno feroci, verrebbe da dire più umani.

Non ho più saputo nulla di Mubarak, da sette anni.
Ho incontrato molti Khalil in giro per il mondo, l’ultimo si chiama Thassim.

Non è afgano, è un ragazzo curdo di quindici anni, è cieco e senza mani. L’ho operato due settimane fa, uno strano intervento chirurgico che trasforma gli avambracci e li rende simili alle chele di un granchio, o a bastoncini cinesi, perché possa afferrare gli oggetti, mangiare da solo, fumarsi una sigaretta.
Gli stiamo insegnando ad adattarsi alla nuova forma del suo corpo, a usare al meglio quel che è rimasto.

Thassim ha raccolto la sua mina, il suo maledetto pappagallo verde, vicino a Mawat, un villaggio di montagna circondato da boschi di querce, rese ancora più maestose dalla prima neve di novembre.

Lo guardo mentre cerca, per ora senza successo, di portarsi un cucchiaio alla bocca senza rovesciare la zuppa.
È stanco, e un poco frustrato, per oggi non vuole più saperne di fare esercizi."

sabato 23 maggio 2009

6°Assignment: Riflettiamo sul copyright

Io al significato di copyright non avevo mai pensato.
O meglio non mi ero mai posta il problema.
E'davvero imbarazzante arrivare anni luce più tardi nelle discussioni proposte da iamarf, ma, pazienza: ormai è routine.
Ci tengo però a giustificarmi: ho provato ad affrontare l'argomento, ma non sono riuscita a farmi un'idea soddisfacente e quindi non mi andava di scrivere niente.
Adesso la situazione non è cambiata molto, ma forse un pochino sì.

Ho anche avuto l'illusione, durante questo periodo di silenzio, di aver trovato la soluzione, la chiave per tirar fuori qualcosa di buono.
Esatto, ho pensato di aver avuto una sorta di "serendipità"!
Diversi giorni fa ho posato lo sguardo, davvero casualmente, su un libro posizionato in uno scaffale della biblioteca del mio borgo natio (che peraltro non frequento mai, se non nei momenti tragici di totale assenza di voglia, spinta dal desiderio di ritrovare la concentrazione perduta, sperando che mi venga trasmessa per osmosi dagli habitué del dotto luogo)ed era un libro che immaginavo parlasse dell'argomento.

Vi lascio immaginare il brillio nei miei occhietti a quella vista: una folgorazione!
Ma, ahimè, lo stupore è durato solo pochi secondi, il libro parlava di pubblicità: l'ispirazione mi ha toccata e ha preferito andar via, lasciandomi ebete, ad aspettare il prossimo scherzetto del caso.

Comunque, dopo la lettura del fumetto, penso che se un'idea non viene diffusa non si saprà mai che l'idea c'è stata, e non va bene, d'altro canto il povero creatore deve avere tutti i diritti del caso.

Wow: che idea rivoluzionaria!
Non c'era arrivato nessuno!
Amen, mi dispiace.

Iamarf dice"Il valore del lavoro scientifico emerge solo con la quantità delle verifiche e delle conseguenze che si confermano nel tempo".
Giustamente per trovare l'errore è giusto dare ai più la possibilità di cercarlo.

"Abbiamo il problema di dover navigare in una quantità di articoli che non aggiungono nulla se non un rumore che confonde e fa perdere tempo".
Non trovo da ribattere.
Però se penso a quello che sto facendo adesso, non so che dire: anche noi scriviamo così, senza un mirabile scopo e intasiamo consequenzialmente il sistema.
Secondo me del bello c'è: si aumenta il caos e nel caos in qualche modo, assurdo, si riesce a galleggiare, come anche lei ha detto.

Per tornare al fumetto bella quest'immagine" Fair use means you can quote like a butterfly, sting like a bee": è vero.

Come ho avuto modo di leggere l'effettiva e attuale anarchia su Internet verrà in un certo senso regolarizzata: ad oggi valgono le leggi citare dal Prof, in un domani dovrebbero essere più permissive.
In ogni modo, permissive o meno è impossibile controllarle, a mio avviso.
Che non sia giusto per quei pochi che fanno qualcosa di buono, a cui si dovrebbe dare valore, è un altro discorso.

giovedì 14 maggio 2009

Arte pura

Nureyev è sublime.



Questa interpretazione non può non emozionare.




martedì 5 maggio 2009

Io & lo Spray


Ho appena avuto tra le mani un articolo del Corriere della Sera sullo spray al peperoncino o, per chiamarlo con il suo vero nome, sullo spray urticante.
Vi invito a leggerlo.
Comunque, se non vi va, più o meno il messaggio di fondo è che lo spray ha fatto aumentare la criminalità (vengono riportati dei dati numerici), pertanto dovrebbe essere maggiormente regolamentata la sua diffusione.
Lo spray viene considerato un'arma, in tutto e per tutto, bisognerebbe quindi avere una sorta di licenza o porto d'armi,rilasciato da un questore, per possederla.
Mi sembra un po'complesso come progetto: anche le persone che ne hanno un reale bisogno, per motivi di auto-difesa, avrebbero un' eccessiva difficoltà ad appropriarsene.

Mi sono "sentita"coinvolta nella problematica e per questo ho deciso di condividere la mia visione con voi.

Premetto: io giro sempre con lo spray in borsa e, per essere precisi, in situazioni di potenziale pericolo (secondo me), che possono essere il percorrere brevi tratti a piedi di notte in strade deserte o semplicemente il sedersi in un vagone senza quasi nessuno all'interno, io tengo lo spray in mano, dentro la tasca del cappotto.

Nell'articolo è stato riportato un discorso del Segretario dei funzionari di polizia: "Ho forti dubbi che una persona normale riesca a neutralizzare il delinquente e, anzi, credo che durante il tempo necessario per cercare in tasca o in borsetta la confezione dello spray urticante il malvivente possa avere buon gioco ad aggredire la vittima".

Non sono d'accordo, o almeno lo sono solo in parte, ma non per questo si dovrebbe giustificare un' interruzione delle vendite.
E'vero che è difficile prevedere un'eventuale aggressione, ma in linea di massima è raro che questa avvenga tra la folla , magari può succedere, ma più di rado e quindi, in teoria, non si dovrebbero essere così impreparati.

Queste parole mi hanno un po'messo in confusione perché qualche tempo fa per l'opinione pubblica, tutti erano potenziali stupratori-cattivi-immigrati e bisognava difendersi, con qualsiasi mezzo. Adesso sembra che si punti il dito contro quello che, a mio avviso, è il più legittimo, e forse l'unico, strumento di auto-difesa che davvero può essere utile.
Ecco, non ci siamo.

Sono indignata perché l'articolo non prevedeva l'analisi dell'altra parte: ma dove è finita la -finta- "compassione", nel senso di patire insieme, del mese scorso, e tutto il desiderio di "proteggere" le donzelle sole e impaurite?
Inoltre ci sono solo i dati degli eventi negativi in cui è implicato l'oggettino incriminato, mentre viene accuratamente evitato il numero di stupri non avvenuti per la prontezza nell'utilizzo dello spray.

Lo so, è solo un articolo.

Capisco che lo spray possa essere utilizzato come arma per aggredire ed è pertanto dannoso, ma ci sono in commercio tante altre cose, reperibili ovunque, che possono essere altrettanto dannose. Anche un sacchetto di plastica o il coltello per la bistecca posso essere armi: fino a prova contraria non bisogna avere il porto d'armi per entrare in un negozio di casalinghi.

La differenza tra le varie, così dette "armi"è semplicemente questa: la vittima che si trova in condizioni spiacevoli può avere, forse, la forza di premere un bottone , ma certamente non quella per rispondere all'aggressione puntando il coltello alla gola del malintenzionato, anche se comprarsi, ad esempio, una mannaia sarebbe legalissimo.

La crescita della criminalità non è direttamente proporzionale alla vendita di spray.

Io mi sento più sicura con lo spray in mano.
Purtroppo i casi della vita mi hanno portato ad avere paura di certe cose, come della violenza sulle donne.
So bene, purtroppo, che in certi momenti il corpo non risponde e che avere la forza di premere un bottone in quegli istanti equivarrebbe a conquistare l'Everest senza bombole d'ossigeno in qualsiasi altro momento della vita, ma perché togliere la possibilità di farlo?
Degli effetti nocivi sul malintenzionato, a meno che non siano gravissimi, scusatemi, me ne frego.
Forse non si riesce a immaginare, neanche lontanamente, i riscontri che certi atti hanno sulla vita delle persone.
Se fosse complesso procurarseli non li userebbe nessuno: da una parte né dall'altra, e non mi sembra giusto.
Credo che comunque ci sia una sorta di effetto placebo nell'essere in possesso di uno spray: in un certo senso ci si sente meno vulnerabili.

Io dico che non ne va vietata la vendita: gli omicidi, i furti, gli stupri e le varie forme di violenza si possono fare in tanti altri modi, con mezzi facili da procurarsi e da usare, mentre per un assalito, forse, quella è l'unica via di scampo.

Plum-cake al limone


Mi dispiace aver aspettato così tanto tempo prima di pubblicare un mio semplicissimo dolce, ma devo ammettere che non ne ho più fatti, tranne un esperimento fallito su una colomba pasquale, che tutto sembrava, tranne una colomba!

Comunque questo è un Plum-cake, per altro molto veloce da fare.
Buona ricetta!
Ingredienti:
  • 180 g di zucchero a velo;
  • 2 uova;
  • 100 g di yogurt, possibilmente bianco. (Io ce l'ho messo ai frutti di bosco, ma non si sente nemmeno!)
  • 180 g di farina;
  • 1/2 bustina di lievito per dolci;
  • la buccia grattugiata di mezzo limone;
  • 50 g di burro;
  • un pizzico di sale.
Procedimento:
  1. In una terrina mettere le uova intere (io ho fatto una variante: ho montato le chiare, e le ho aggiunte dopo. Il risultato è più o meno lo stesso), aggiungere lo zucchero a velo e la buccia di limone grattugiata e montare il tutto un poco con la frusta; versare poco alla volta lo yogurt , aggiungere la farina setacciata insieme al lievito e a un pizzico di sale, il burro fuso in un tegamino e amalgamare gli ingredienti.
  2. Foderare lo stampo, leggermente imburrato, con un foglio di carta vegetale (facoltativo); versare il composto nello stampo preparato, fino a 2/3 della sua capacità e far cuocere il plum-cake in forno preriscaldato a 180° per 50 minuti circa.
  3. A cottura ultimata , sfornarlo e farlo raffreddare cospargendolo di zucchero a velo.
Buona colazione o merenda che sia!

sabato 2 maggio 2009

Omaggio ad un uomo

La paura di scivere sul blog e di commentare i blogs dei miei compagni sta iniziando a venire meno. Per fortuna.
Però in questo momento, in cui ho deciso di scrivere due parole su Panagulis l'esuberanza va via, lasciando spazio alla paura di sempre.
Ho "conosciuto"questo personaggio durante la lettura di "Un uomo"della Fallaci, libro spendido e sincero, scritto con la sua solita, meravigliosa franchezza.

Dopo averlo letto, questa storia d'amore, ma più che altro di vite inusuali e vissute in pieno, per questo interessanti, mi è rimasta dentro e mi ha portato ad amare quest'uomo che aveva ispirato tanta profondità in Oriana.
Così si apre il libro, sull'immagine del funerale di Panagulis.

"Un ruggito di dolore e di rabbia si alzava sulla città, e rintronava incessante, ossessivo, spazzando qualsiasi altro suono, scandendo la grande menzogna. Zi, zi, zi! Vive, vive, vive! Un ruggito che non aveva nulla di umano. Infatti non si alzava da esseri umani, creature con due braccia e due gambe e un pensiero proprio, si alzava da una bestia mostruosa e senza pensiero, la folla, la piovra che a mezzogiorno, incrostata di pugni chiusi, di volti distorti, di bocche contratte, aveva invaso la piazza della cattedrale ortodossa poi allungato i tentacoli nelle strade adiacenti intasandole, sommergendole con l'implacabilità della lava che nel suo straripare divora ogni ostacolo, assordandole con il suo zi, zi, zi. Sottrarsene era illusione."

Ieri ricorreva l'anniversario della morte di Alekos, il 1°maggio del '76 e con due parole mi andava di ricordarlo.
Era un eroe scomodo, sapeva troppo.
Lascio qui una sua poesia: i miei commenti sarebbero superflui, è già abbastanza eloquente .

Esplosione

Voi, tombe che camminano
insulti viventi della vita
assassini del vostro stesso pensiero
manichini antropomorfi

Voi che invidiate le bestie
che offendete l’idea del Creato
che chiedete rifugio all’ignoranza
permettete alla Paura di farvi da guida

Voi che avete dimenticato il Passato
che vedete il Presente con occhi appannati
che non avete interesse per il futuro
che respirate solo per morire

Voi che solo per gli applausi avete le mani
e che domani applaudirete
con più forza di tutti come sempre
e come ieri, e come oggi

Sappiate allora voi
scuse viventi di ogni tirannia
che i tiranni li odio tanto
tanto quanto ho schifo di voi.

Isolamento.Giugno 1971.
Scritta per la prima volta con il sangue,
su un pezzo di carta lercia.