giovedì 20 agosto 2009

Compromesso?

Valutando gli sforzi, che sviscerano il pensiero, alla ricerca di un punto di contatto, di un nuovo e giusto compromesso, di maletti punti in comune, che vacillano, sento che per certi sensi ne vale la pena, la fatica viene subito ricompensata: tutto questo ha un nome, chiamatelo con il Suo nome.
Le certezze mi uccideranno.

"Come mi sento lontano da loro, dall'alto di questa collina. Mi sembra d'appartenere ad un'altra specie. Escono dagli uffici, dopo la loro giornata di lavoro, guardano le case e le piazze con un'aria soddisfatta, pensano che è la loro città, una "bella città borghese". Non hanno paura, si sentono a casa loro. Non hanno mai visto altro che l'acqua addomesticata che esce dai rubinetti, che la luce che sprizza dalle lampade quando si preme l'interruttore, che gli alberi meticci, bastardi, che vengono sorretti con i pali. Hanno la prova, cento volte al giorno, che tutto si fa meccanicamente, che il mondo ubbidisce a leggi fisse e immutabili. I corpi abbandonati nel vuoto cadono tutti con la stessa velocità , il giardino pubblico viene chiuso tutti i giorni alle sedici d'inverno, e alle diciotto d'estate, il piombo fonde a 335 gradi, l'ultimo tram parte dal Municipio alle ventitré e cinque. Son pacifici, un po' melanconici, pensano a Domani, cioè semplicemente, ad un altro oggi; le città non dispongono che di una sola giornata che ritorna sempre uguale ogni mattina. La si impennacchia un po'la domenica. Che imbecilli. Mi ripugna il pensare che sto per rivedere le loro facce ottuse e piene di sicurezza. Legiferano, scrivono romanzi populisti, si sposano, hanno l'estrema stupidità di fare figli.
E frattanto la grande natura incolta s'è insinuata nella loro città, s'è insinuata dappertutto, nelle loro case, nei loro uffici, in loro stessi. Non si muove, si mantiene ferma in essi, essi vi stan dentro in pieno, la respirano e non la vedono, credono che sia fuori, a venti miglia dalla città.
Io la vedo questa natura, la vedo...So che la sua sottomissione è pigrizia, so ch'essa non ha leggi: quella che scambiano per la sua costanza...Non ha che abitudini, e le può cambiare domani.
E se capitasse qualcosa? Se d'un tratto di mettesse a palpitare? Allora s'accorgerebbero della sua presenza e gli sembrerebbe di sentirsi scoppiare il cuore. A che cosa gli servirebbero, allora, le loro dighe, i loro argini, le loro centrali elettriche, i loro alti forni, i loro magli a vapore? Ciò potrebbe succedere in qualsiasi momento, magari subito, i presagi ci sono. Per esempio, un padre di famiglia passeggio vedrà venire verso di lui, attraverso la strada, uno straccio rosso come spinto dal vento. E quando lo straccio gli sarà vicinissimo vedrà che è un pezzo di carne marcia , imbrattato di polvere, che si trascina strisciando, a sbalzi, un pezzo di carne torturata che si rotola nei rigagnoli proiettando a spasmi getti di sangue. Oppure una madre guarderà la faccia del suo bambino e gli domanderà :"Che cos'hai, lì, una pustola?"e vedrà la carne gonfiarsi un poco, screpolarsi, schiudersi e in fondo alla scepolatura apparirà un terzo occhio, un occhio beffardo. Oppure si sentiranno dolci sfioramenti per tutto il corpo, come le carezze che i giunchi dei fiumi fanno ai nuotatori. E si accorgeranno che le loro vesti sono divenute cose viventi. E un altro si accorgerà che qualcosa lo solletica dentro la borsa. S'accosterà ad uno specchio, aprirà la bocca: e la lingua gli sarà diventata un enorme millepiedi vivi, che agiterà le zampe raschiandogli il palato. Vorrà sputarlo, ma il mille piedi sarà una parte di lui stesso,e dovrà strapparselo con le mani. E apparirà una quantità di cose per le quali bisognerà trovare nomi nuovi, l'occhio di pietra, il gran braccio tricono, l'allucegruccia, il ragno-mascella. E colui che si sarà addormentato nel suo buon letto, nella sua dolce camera calda si risveglierà tutto nudo sopra un suolo bluastro, in una foresta di verghe rumoreggianti, rosse e bianche, erette verso il cielo come le ciminiere di Jouxtebouville, con grossi coglioni a metà fuori di terra villosi, turgidi come cipolle. E intorno a quelle verghe svolazzeranno uccelli che le becchetteranno facendole sanguinare, e da queste ferite colerà lo sperma, pian piano, lentamente, sperma mescolato a sangue, vitreo e tiepido, con piccole bolle.
O anche, niente di tutto questo succederà. non vi sarà alcun cambiamento apprezabile,ma, la gente, una mattina, aprendo le persiane , sarà sorpresa da una specie di denso orribile, pesantemete posato sulle cose, e che sembrerà aver l'aria di attendere. Null'altro che questo: ma per poco che questo duri ci saranno suicidi a centinaia.
Ebbene, sì! Che tutto questo cambi un poco, non domando meglio. Se ne vedranno altri, allora, piombati bruscamente nella solitudine. Uomini completamente soli, solissimi, con orribili mostruosità, correranno per le strade, passeranno pesantemente davanti a me, con gli occhi fissi, fuggendo i loro mali e portandoli con , con la bocca aperta e la loro lingua-insetto che sbatterà le ali.
Allora io creperò dalle risa, anche se il mio corpo sarà coperto da luride croste sospette che sbocceranno in fiori di carne, in viole, in ranuncoli. M'addosserò ad un muro, e griderò al loro passaggio: "Che ne avete fatto della vostra scienza? Che ne avete fatto del vostro umanitarismo? Dov'è andata a finire la vostra dignità di canna pensante?". Io non avrò paura -o almeno, non più che in questo momento. Forse che ciò non sarà pur sempre esistenza?Tutti quelli occhi che mangeranno lentamente un volto saranno di troppo, senza dubbio, non più dei due primi. E'dell'esistenza che io ho paura."
Jean- Paul Sartre

giovedì 13 agosto 2009

Per possibilità


In una sera d'estate, con la mente forse non più libera, ma più distesa del solito, mi sono trovata nella penultima fila di un improvvisato cinema all'aperto, in realtà un parcheggio, in compagnia di anziane coppiette che avranno di certo aspettato la frescura per avanzare lente oltre le loro porte, considerando dai tratti rilassati e da quei sorrisi serafici stampati in faccia.
Mi sono trovata lì un po'per caso, un po'per nostalgia del Cinema d'Essai che c'è qui in inverno (sono gli stessi che lo organizzano), un po'perché sono tornata da 2 giorni dalle vacanze e ho trovato un paese completamente deserto e tutto, l'ambiente, le persone, il cielo stellato che si intravede tra i tetti, il film, sono stati tra il piacevole e lo spiacevole:avevano un sapore dolciastro inusuale.

E'stato facile captare in meno di 30 nanosecondi che ero la più giovane tra i seduti, e anche se è normale, non so perché continuo a stupirmene.
Ma il punto è il film, Tulpan, la ragazza che non c'era di Sergei Dvortsevoy.
La storia di per sé non ha niente di emozionante, ma era strano, in quel contesto, percepire il messaggio che mandava, era dissonante, banale in superficie ma spaventoso un po'più a fondo.
Parla di un giovane kazako che, dopo il servizio in marina, fa ritorno nell'arida steppa e che, per iniziare una vita sua autonoma, necessita di un gregge, ma prima di tutto di una moglie.
L'unica possibile non gli si concede.

Su questi spazi aperti e magnifici gravita una gabbia tanto pesante e spessa da non lasciar passare l'aria. La rete degli eventi, la stessa Natura e la vita nomade tengono imprigionati la gioventu'come la vecchiaia in un cerchio eterno senza via di scampo.

La possibilità di cambiamento, di un' evoluzione si spenge senza essersi forse mai accesa, come se aleggiasse un senso di morte e fissità su una terribile bellezza.

Il messaggio del film, almeno quello che io ho ricevuto, è precisamente il contrario di quello che cerco di vedere nel domani.
E'la possibilità di cambiamento che rende liberi di agire, ma la cosa atroce è che entro certe gabbie non si percepisce che c'è un controllo, non si sente, non siamo oggettivi se coinvolti.

Ma quanto saremo in gabbia?
Né un film, né un pubblico, né un cielo me lo sapranno mai dire.